Fermenti al Museo della Scienza e della Tecnica, con Yakult

Yacult cibo in fermento

La fermentazione mi accompagna da sempre, e guardando indietro, mi rendo conto che in ogni momento della mia vita, ha avuto un ruolo fondamentale sul mio percorso. Ho iniziato a pensare ai possibili parallelismi che sono insiti in un processo di trasformazione così rappresentativo della relazione tra uomo e natura. Faccio sicuramente della filosofia da marciapiede, ma sono certa che è solo guardando nel micro e nel macro si  possa comprendere meglio per guardare al nostro futuro: personale e collettivo.
Perché sì, osservo i comportamenti di batteri e lieviti, ma anche delle stelle (adesso non so se vi sembrerò più normale o più matta di prima).

Questa è una lunga intervista a una persona che conosco da tempo e con cui potrei passare ore a parlare, di fermentazioni, di comunicazione e di vita. La stolko molto per farle creare un blog a suo nome, e non so quando, ma so che ce la farò.

Il nostro ultimo progetto insieme è #Ciboinfermento, un evento con Yakult ILab evento al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica di Milano

Antonella Losa
Nutrizionista, divulgatrice e consulente di comunicazione
Laureata in Alimentazione – Nutrizione Umana e in Chimica Organica

Quando hai cominciato ad occuparti di “fermentazioni”, e quando ti sei accorta di un risveglio nell’interesse qui in Italia e in Europa?

Fermentazione non significa solo alimenti, sono tanti i principi attivi medicinali che vengono ottenuti per questa via. Il mio primo incontro “live” con questa tecnica è avvenuto negli anni novanta, mentre lavoravo nel settore farmaceutico.
La differenza rispetto ai reparti di sintesi era intrigante: più variabili da dominare, molti più controlli durante il processo, per garantire un prodotto che doveva necessariamente essere sempre identico a sé stesso, anche perché la fermentazione, per sua natura fatica a dare un prodotto standard. Per riuscirci va piegata, dominata: è il suo bello e il suo brutto, si tratta di un processo vivo, che risponde, che si modifica se cambiano le condizioni ambientali.
In quegli stessi anni – ricordi? – si assisteva al primo boom dei corsi di degustazione del vino, con sempre più persone che si avvicinavano alla materia con interesse crescente al di là del piacere gustativo.
La voglia di capire perché un vino potesse essere tanto diverso da un altro, anche partendo dalle stesse uve, nello stesso territorio.
Tante le risposte, a partire proprio dal processo di fermentazione: modalità diverse, vini con diverse personalità.
Fu poi la volta dei micro birrifici, del cui sviluppo Milano fu antesignana. Se osservare e capire i risultati della fermentazione era stato fino ad allora lo stimolo principale, ora i tempi erano maturi per provare a sperimentare. E la produzione di birra si prestava particolarmente bene, anche per la situazione di mercato. Cominciava infatti a esserci una domanda concreta di birre non standard, diverse, da poter scegliere “su misura”, con un’impronta quasi artigianale.
Era ancora fermentazione e ancora, la cosa funzionava.
Da lì al pane e agli yogurt fatti in casa era solo questione di tempo. Gli scaffali dei reparti di elettrodomestici si riempirono d’un tratto di macchine per il pane e yogurtiere, e resero la tendenza chiaramente visibile a tutti.
La sfida ora è quella delle verdure fermentate, un trend in rapida diffusione negli ultimi anni, verso cui va anche passato un messaggio di cautela: è importante infatti conoscere e attuare le condizioni che garantiscono la sicurezza alimentare del prodotto finito.

All’evento siamo riusciti a dare un’idea storica e geografica della fermentazione, fondamentale per avere una visione ampia e corretta e per scoprire che in ogni luogo la fermentazione è stata usata a scopi di conservazione degli alimenti e che solo successivamente si è sviluppata una cultura per la trasformazione degli stessi attraverso per arrivare ad alimenti diversi, spesso migliori nel gusto e con proprietà benefiche per l’organismo. Non credo sia per altro un caso, che i paesi che annoverano maggiore longevità siano anche quelli dove si trovano appunto alimenti fermentati, consumati nel quotidiano.
La fermentazione di per sé comporta dei vantaggi interessanti a livello nutrizionale: in un certo senso rende i cibi in parte “predigeriti”, facilitando il compito al nostro organismo, e arricchisce gli alimenti di sostanze prodotte dai fermenti stessi mentre svolgono la loro funzione: alcune vitamine ad esempio, o alcuni enzimi – citiamo il caso di alcune lattasi presenti nello yogurt e non nel latte di partenza, che permettono alla maggior parte di chi non tollera il lattosio di poter comunque consumare yogurt beneficiando così del suo portato nutrizionale.
Altri elementi presenti già nell’alimento di partenza possono essere invece resi più facili da assorbire per il nostro organismo: questo avviene ad esempio nel caso di alcuni minerali – possiamo citare il ferro nei cereali integrali – perché la fermentazione può “tagliare” alcune sostanze che normalmente “catturano” quel minerale rendendolo poco disponibile all’assorbimento.

Non trovi interessante che quando nel secolo scorso, si sono fatte determinate ricerche e con la disponibilità di nuovi strumenti, soltanto alcuni, come in Giappone, o l’Italia e la Francia per i formaggi, il Nord Europa per il lievito di birra e per le verdure, abbiano fatto ricerca e selezione con l’obiettivo ben preciso di migliorare l’efficacia di alcuni alimenti?
Sì, è come dici tu: i Paesi sufficienti maturi da avvertire una specifica esigenza – di mercato, di sicurezza alimentare o di innovazione – e da avere accesso agli strumenti opportuni, hanno provveduto ad attivare le necessarie fasi di ricerca per definire in maniera precisa il processo di fermentazione – togliendolo quindi in qualche modo alla casualità che era invece l’attrice principale delle produzioni tradizionali.

Questa esigenza poteva essere la necessità di assicurare un prodotto finale con caratteristiche garantite, requisito di quei prodotti che volevano uscire dall’utilizzo casalingo per entrare in un mercato allargato, o un prodotto esente da contaminazioni che potessero alterarlo o renderlo veicolo di patogeni, o ancora un prodotto innovativo, con caratteristiche uniche e peculiari, che portassero vantaggi ulteriori rispetto a quelli fino ad allora esistenti – pensiamo in questo caso a specifici ceppi probiotici, che possono fermentare il latte a dare prodotti con potenzialità aggiuntive rispetto ai vantaggi offerti dal tradizionale yogurt.

Ecco quindi, nelle aree che citavi, il lungo processo di selezione di ceppi specifici, come anche lo studio di tutti gli accorgimenti da adottare per ottenere dalla fermentazione solo ciò che si desidera.
Un esempio: sai perché è nata pastorizzazione? Per un problema in fondo economico, e per volere di un imperatore francese, Napoleone III. E non per il latte, all’inizio, ma per il vino. A metà Ottocento infatti il vino cominciava a ricoprire un ruolo importante nell’economia francese: era chiaro il potenziale, ma la produzione aveva risultati un po’ casuali, possiamo dire. Troppo spesso infatti il prodotto risultava alla fine alterato, e non poteva raggiungere il mercato.

L’imperatore affidò quindi allo scienziato francese forse più in vista del momento, Louis Pasteur, il compito di trovare il modo di stabilizzare il prodotto finale.
Dopo qualche anno di ricerche, un periodo che ha del prodigioso per i mezzi di cui poteva disporre in quei tempi uno scienziato, Pasteur presentò all’Accademia delle Scienze il suo «Procedimento pratico di conservazione e di miglioramento dei vini», in cui individuava il riscaldamento a temperature superiori a 60°C e in assenza di aria il modo in cui evitare che il vino ottenuto si alterasse in seguito. Era nata la pastorizzazione. (Va detto che oggi per quanto riguarda il vino è stata abbandonata a favore di altre misure igieniche, col vantaggio di poter oggi avere una fase – fondamentale per il risultato finale – di maturazione del vino, che con la pastorizzazione non era possibile proprio perché veniva abbattuta la carica di microrganismi presenti, che fossero effettivamente alterativi o che fossero invece utili).
[e va anche detto che Pasteur, prima di andare a rendere pubblico il tutto all’Académie des Sciences, ha visto bene di coprire con un brevetto il processo per 15 anni. Perché scienziato sì, ma anche grande uomo d’affari. Un po’ alla Thomas Alva Edison, diciamo…

Contemporaneamente, grazie alla nuova capacità di conservare attraverso l’elettricità ed i frigoriferi, si sono quindi abbandonate tante pratiche di fermentazione nelle realtà quotidiane, come se mancasse una necessità e che quindi, la prosperità abbia lasciato che si abbandonassero tradizioni che oggi invece vediamo risorgere?
A volte pensi che le cose davvero non capitano mai per caso.
L’ingresso dei frigoriferi nelle case degli italiani è avvenuto contestualmente al boom economico degli anni sessanta, e a tutti i cambiamenti sociali che si sarebbero affacciati da lì a poco. Cambiavano in maniera radicale i valori e gli stili di vita. Cambiavano i ritmi. In tutto questo il frigorifero si inseriva come lo strumento perfetto per la conservazione dei cibi: forniva un risultato sicuro senza richiedere tempo o dedizione, in un momento in cui le energie di tutti confluivano in altre direzioni.
La fermentazione ha invece i suoi tempi, che vanno rispettati, è un processo variabile, che pertanto richiede attenzione e cura. Ed è inoltre un processo dal sapore antico, tradizionale. Nel nostro momento storico di messa in discussione di tutto lo status quo, non appariva più come uno strumento d’elezione.
Né c’era più l’effettivo bisogno in senso stretto, quello della conservazione: la nostra società aveva davanti a sé ampie circonvoluzioni da fare, prima di tornare a considerare la fermentazione come risposta a un proprio bisogno.
Lo sta facendo ora, cambiando proprio il bisogno di fondo, che non è più conservazione ma personalizzazione e gusto, ma a questi si è si è consolidato il concetto di salubrità.

È successo anche con il pane, la fermentazione attraverso lieviti selezionati dalla birra si è diffusa, ma adesso c’è una grande riscoperta di tradizioni di pani fermentati di tutto il mondo. potresti raccontarmene alcuni? E come scientificamente avvengono?

Una splendida domanda; c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Se torniamo ai temi emersi durante il nostro laboratorio Cibo in Fermento, il pane e, più in generale, la fermentazione dei cereali sono stati protagonisti di due momenti in particolare.
In uno abbiamo parlato, in chiave anedottica, del San Francisco Sourdough.
Il discorso generale era stato introdotto da alcune osservazioni di Teresa sulle differenze tra il pane ottenuto con il lievito di birra e quello ottenuto con pasta madre, osservazioni che abbiamo poi approfondito in termini che vale forse la pena ripercorrere.

Nel caso del lievito di birra, la fermentazione viene condotta unicamente da Saccaromices cerevisiae: solo un lievito, quindi, non accompagnato da altri microrganismi. Si tratta di un lievito che dà una buona lievitazione, ben riproducibile: i risultati saranno sempre molto simili tra loro, a parità di materia prima e quantità utilizzate.
Nel lievito madre, o pasta madre, o pasta acida, sono invece presenti sia diversi lieviti, sia diversi batteri lattici e acetici.

La fermentazione – più lenta che nel caso precedente – porterà quindi allo sviluppo anche di acidità, che conferirà al pane caratteristiche diverse e molto interessanti a livello sia sensoriale (gusto piacevolmente acidulo), sia strutturale (occhiature meno ampie), sia – aspetto molto interessante – di conservabilità: il raffermimento sarà infatti molto più lento, e il prodotto potrà restare fresco diversi giorni – contro la giornata scarsa del pane ottenuto con lievito di birra.
I lieviti più rappresentati nel lievito madre sono alcuni saccaromiceti (cerevisiae ed exiguus soprattutto) e alcune candide (tra cui Candida humilis, in grado di degradare i fitati, presenti nelle parti esterne del chicco di grano – e, quindi, nelle farine integrali – noti come fattori antinutrizionali in quanto limitano l’assorbimento di alcuni minerali).
Tra i batteri soprattutto lattobacilli, tra cui gode di una certa fama il Lactobacillus franciscensis.
Il nome di questo fermento e l’icona del pane possono far pensare – e io senza dubbio lo pensai, in un primo momento – che sia stato così in onore alla figura di San Francesco, o della tradizione francescana più generale con tutto il suo portato valoriale così vicino a quello del pane.
Invece non è così. Nulla di iconico o di mistico. Non il Santo. La città. Il nome deriva infatti dal San Francisco Sourdough – il pane acido di tradizione ultracentenaria nell’area di San Francisco – da cui è stato isolato.
E se ci sembra poco americano l’uso di paste madri per la panificazione, ci rassicurerà sapere che l’origine di quel pane è in effetti europea. Basca, precisamente.

La storia del pane di San Francisco è la storia della corsa all’oro, nel lontano 1849, quando intrepidi cercatori accorsero fin da oltreoceano per cercare fortuna sulla vicina Sierra Nevada.
I migranti baschi arrivarono con la loro pasta madre, che portavano con sé sulle montagne come unica fonte di cibo. Unita ad acqua e farina e lasciata lievitare, dava infatti loro ogni giorno di che mangiare: un saporito pane acido cotto al fuoco dei bivacchi.
Ancora oggi, la squadra di football americano di San Francisco rende omaggio allo spirito di quei pionieri nel nome (49ers) e nella mascotte scelta: è il minatore Sourdough Sam, dalla nota passione per il pane di pasta madre.

Sempre durante Cibo In Fermento, abbiamo poi parlato dell’importanza della fermentazione dei cereali in Africa, dove questa categoria alimentare rappresenta, insieme alla manioca, la fonte principale di sostentamento.
A seconda del tipo di cereale (principalmente sorgo, miglio e mais), dei fermenti e della quantità di acqua aggiunta alla farina, il prodotto della fermentazione dei cereali in Africa può dar luogo a bevande, creme, farinate, pancakes, alimenti di consistenza simile a porridge o, più raramente data la prevalenza di cereali privi di glutine, a pani lievitati.
In questi prodotti la fermentazione può favorire una migliore disponibilità di alcuni nutrienti, ad esempio grazie alla degradazione di sostanze che ne ostacolerebbero l’assimilazione. La rilevanza di questo risvolto per un continente come quello africano è evidente, e lo è ancor più se pensiamo a quelle realtà in cui altri alimenti sono particolarmente inaccessibili, o per cause territoriali o magari per tradizioni religiose.

In Etiopia, ad esempio, dove il consumo di carne trova molte limitazioni, un cereale come il teff – tipico di quell’area – diventa importante anche per il suo particolare contenuto di ferro. Se fatto fermentare, il teff offre un ferro più facile da assimilare, in quanto la fermentazione “consuma” alcune sostanze che sarebbero altrimenti di ostacolo. E proprio da teff fermentato si ottiene l’injera, il “pane” tradizionale di quest’area.

Un evento particolare quello avvenuto nel Museo della scienza e della tecnica, che ha potuto trasferire molte informazioni, senza per forza dover parlare di prodotto. Dato importante per una nuova comunicazione aziendale, che di questi tempi prende nuove vie e nuove forme e sempre più velocemente.
In che modo te ne occupi?

Una comunicazione che voglia essere efficace e attuale non può prescindere oggi dalla dimensione della partecipazione.
Il valore della comunicazione risiede nella misura in cui si riesce a creare contenuti in maniera condivisa con il pubblico destinatario, che deve essere oggi il più specifico possibile. Oggi non si parla al pubblico, ma ai pubblici, lavorando insieme ad ognuno di loro per dar vita a contenuti nuovi, inediti, fatti su misura per quello specifico uditorio.
Naturalmente questo richiede un effort molto maggiore rispetto a quando la comunicazione era intesa in senso sostanzialmente unidirezionale e standardizzato. A ciò tuttavia corrisponde una funzione estremamente più strategica della comunicazione, che si allontana sia dall’approccio persuasivo tout court per diventare uno strumento di creazione di valore.
La comunicazione si muove oggi in un contesto esperienziale, in un percorso in cui emittente e destinatario della comunicazione mescolano i loro ruoli, per arrivare ad avere contenuti che nessuno dei due possedeva prima, e che siano di valore per entrambi.
La comunicazione aziendale non fa eccezione. Per questo motivo, quanto più un’azienda possiede know-how interno di livello elevato, tanto più sarà avvantaggiata nel proporsi ai suoi pubblici con un approccio di questo tipo. Ma non basta.

Serve la volontà disponibilità dell’azienda a mettersi in gioco, a metterci la faccia, a confrontarsi senza filtri, con la massima trasparenza. E non è facile: è spesso il risultato di un percorso articolato che corrisponde a un cambio culturale all’interno delle aziende.
Per questo motivo può essere utile una figura professionale di affiancamento.
Il mio ruolo è in fondo questo: come nutrizionista e comunicatrice, amo assistere le Aziende del comparto food nell’individuare il know-how interno di rilevanza comunicazionale, nel mettere in valore i contenuti già esistenti e non necessariamente percepiti come tali, nel crearne di nuovi, nell’individuare i pubblici più strategici, nell’immaginare attività esperienziali in cui coinvolgerli, nell’osare ad esporsi e a percorrere nuove strade.
Nel panorama italiano da qualche tempo la trasformazione è in atto: alcune aziende hanno chiaramente cominciato a prendere coscienza di se come provider di contenuti, e a seguire questo nuovo approccio alla comunicazione – con un’idea, quindi, di guardare a prospettive di lungo termine e a valori come la creazione di relazioni di fiducia.
Ma non è ancora da tutti: molte aziende non resistono ancor oggi alla tentazione di cercare nel passato una via percepita come meno rischiosa, e di attuare quindi una comunicazione più “muscolare”, ad alta voce, standardizzata, prodotto-centrica, guardando al risultato immediato ma rinunciando spesso ad alzare lo sguardo al futuro.

I partecipanti sono stati scelti in base ad audience e per interesse autentico, attraverso le proposte di Teresa Balzano e mie, e il numero era adeguato per la riuscita di una buona comunicazione, che è passata anche attraverso le tante domande scaturite da interessi diversi, per arrivare poi a contenuti diversificati. Cosa pensi quindi del loro coinvolgimento e dei risultati ottenuti?
L’intenzione dei partner dell’iniziativa – il Museo di Scienza e Tecnologia e Yakult – era proprio realizzare un nuovo modello di comunicazione “co-creata”, e le scelte che avete attuato sono andate assolutamente a segno.
Era una sfida non facile da cogliere: c’è interazione profonda solo quando tutti gli attori – dai partner alle foodwriter – hanno competenze proprie e specifiche e voglia di mettersi apertamente in gioco.
Le scelte sono pertanto fondamentali.
E i risultati sono stati visibili da subito; ognuno ha offerto una propria esperienza, un proprio dubbio, un’osservazione personale: quando il tempo passa senza che ce ne accorgiamo – siamo andati oltre al doppio rispetto ai tempi previsti – significa che stiamo andando oltre i ruoli, che nessuno è spettatore, che stiamo navigando insieme arrivando a un porto nuovo.

Ti posso dire che io personalmente non l’ho nemmeno più vissuto come lavoro: era proprio il piacere di tutti di raccontarsi e di raccontare.
Il famoso human-to-human, di cui si parla tanto.
Il vero asset è stato quello.
Offline che alimenta l’online e ne è a sua volta alimentato, se vogliamo invece vedere il lato più tecnico.
Sul fronte poi quantitativo, che comunque non può essere negletto quando si parla comunicazione, le coperture e interazioni registrate sui social media hanno dato conferma della peculiarità dell’evento.

Mi daresti una definizione scientifica ma comprensibile ai più?
La fermentazione è un processo che ricava energia da alcuni nutrienti – quasi sempre zuccheri semplici come il glucosio, il fruttosio o il lattosio – in assenza di ossigeno. E’ tipica (anche se non esclusiva) di batteri e lieviti, che in questo modo si nutrono a spese proprio degli zuccheri che vanno a fermentare. Il processo che permette di “estrarre” parte della loro energia li trasforma in sostanze diverse, come acido lattico, acido acetico, alcol etilico e tante altre, a seconda di quale microrganismo attua la fermentazione.

Nella panificazione, ci si riferisce alla fermentazione dell’impasto col termine di lievitazione, che sottolinea il rigonfiamento che accompagna il processo. Ciò è dovuto al fatto che i lieviti che attuano la fermentazione liberano CO2, gassosa, che fa espandere il reticolo proteico presente nell’impasto che conosciamo con il nome di glutine. Il glutine in un certo senso “imprigiona” la CO2 e permette la creazione del pane come lo conosciamo. E’ questo il motivo per cui gli impasti di farine di cereali privi di glutine non panificano – a meno che vi si aggiungano sostanze che mimano la funzione della maglia glutinica, come avviene nei prodotti per celiaci. E’ questo il motivo per cui abbiamo pane di frumento e polenta di mais, e non viceversa (posto che se aggiungiamo del fioretto di mais alla farina bianca otterremo senza dubbio il pane giallo, tradizionale in Lombardia. Anche in questo caso è comunque il glutine della farina di frumento a permettere la panificazione).

Se desiderate approfondire, su slideshare troverete la presentazione “Cibo in fermento” che abbiamo usato durante l’evento.

Se volete invece, capire come ogni blogger ha sviluppato il proprio contenuto, personalizzandolo per interesse, sotto troverete tutti i link ai loro post.

 

 

 

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